Il termine inglese
mobbing è il present participle del verbo to mob che significa "attaccare,
assalire, aggredire, accerchiare" riferito ad una folla o comunque ad una
massa di persone, infatti deriva dal latino "mobile vulgus" cioè
"plebe in tumulto".
Cos'è il mobbing
Questo termine è stato
ormai da tempo adottato nel nostro Paese per definire l'attacco che il
lavoratore subisce nell'ambiente di lavoro, da parte del datore di lavoro, o
dei superiori gerarchici, oppure da parte dei suoi stessi colleghi, attuato
attraverso una serie di comportamenti, che talvolta sono illeciti (ingiurie,
diffamazione, percosse, lesioni, violenza privata, minacce, molestie sessuali
etc.), ma molto più spesso sono, singolarmente considerati, leciti (rimproveri
verbali, procedimenti disciplinari, trasferimenti, modifica delle mansioni,
modifica degli orari di lavoro, diniego di ferie e permessi, etc.), che vengono
posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato, in maniera
persecutoria e con intento vessatorio, al solo scopo di isolare, emarginare,
umiliare e finanche espellere dal contesto organizzativo il lavoratore, che
subisce a causa di tali comportamenti posti in essere contro di lui, un danno
alla sua integrità psicofisica ed/o alla sua dignità.
Mobbing verticale e mobbing orizzontale
L'autore del mobbing, il
c.d. mobber, ossia colui che pone in essere i comportamenti aggressivi,
vessatori e persecutori nei confronti del lavoratore (c.d. mobbizzato), non è
quindi, necessariamente, il datore di lavoro o il superiore gerarchico, ma
possono anche essere uno, o più, colleghi posti nella stessa posizione
gerarchica della vittima; per distinguere le due ipotesi, ai meri fini
classificatori, si parla rispettivamente di mobbing verticale o bossing e
mobbing orizzontale. Esiste inoltre, anche se più raro, il c.d. mobbing
ascendente, che è quello praticato generalmente da più lavoratori che si
coalizzano contro il proprio datore di lavoro, o più spesso, contro il proprio
superiore gerarchico, con condotte che arrecano danno alla persona e talvolta
anche all'azienda.
Il quick mobbing e lo straining
Nel mobbing è
indispensabile che vi siano più condotte vessatorie, continue, non sporadiche
ma ripetute nel tempo, che perdurino per un periodo medio-lungo. La
giurisprudenza di solito richiede una durata di almeno sei mesi, ed una
ripetizione degli atti persecutori di almeno due volte al mese, salvo per il
c.d. quick mobbing che consiste in attacchi particolarmente intensi e frequenti
(anche quotidiani), e per il quale la durata necessaria viene ridotta a tre
mesi. Il termine quick mobbing è stato coniato dallo Psicologo specialista in
Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, dott. Harald Ege, considerato il
principale studioso del fenomeno mobbing, al quale si deve anche la paternità
del termine straining, un particolare tipo di mobbing consistente in un
aggressione al lavoratore attuata solitamente dal suo superiore gerarchico o
dal suo datore di lavoro, anche con una sola azione ostile, i cui effetti
negativi sul lavoratore perdurano costantemente nel tempo. Quindi lo straining
si differenzia dal mobbing vero e proprio per il modo in cui viene perpetrata
l'azione vessatoria, in quanto non è necessaria la continuità e la frequenza
delle azioni persecutorie, ma è sufficiente anche una sola azione, purché
sempre accompagnata dal preciso intento di arrecare un danno al lavoratore e
purché l'azione predetta determini effettivamente un pregiudizio personale o
professionale al dipendente. Il classico esempio è quello del demansionamento o
del trasferimento non motivato da ragioni aziendali ed organizzative, ma posto
in essere unicamente per provocare un peggioramento permanente alle condizioni
lavorative e/o personali del dipendente.
Lo straining è stato
riconosciuto come fonte di responsabilità da una recente sentenza della Suprema
Corte, la n° 3291 del 19/02/2016. Nel caso deciso da Piazza Cavour, la
ricorrente, nonostante avesse qualificato il fatto come mobbing, e pur avendo
allegato l'esistenza di due sole condotte (ingiurie), poste in essere da parte
del superiore gerarchico nell'arco di un anno - essendo riuscita a dimostrare
di aver subito a causa di tali condotte un danno biologico del 10% per disturbo
dell'adattamento con ansia e umore depresso poi cronicizzato - ha ottenuto in
tutti e tre i gradi di giudizio il riconoscimento del suo diritto ad essere
risarcita per il pregiudizio subito. In questo caso i giudici hanno qualificato
la condotta del superiore gerarchico come straining , facendo propria la
terminologia dell'esimio studioso della materia, e riconducendo questa
fattispecie, al pari del mobbing, in una violazione dell'art. 2087 c.c., che
prevede l'obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie
alla tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del prestatore di
lavoro.
La rilevanza penale del mobbing
Il mobbing non è di per
sé un reato, nel senso che non esiste una norma di carattere penale che
individui gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e la
punisca con una sanzione penale pecuniaria o detentiva; ma questo non vuol dire
che tale condotta non possa sfociare in una condanna penale per l'autore del
mobbing.
La giurisprudenza penale
ha spesso ricondotto i comportamenti dei c.d. mobber a fattispecie penali ben
individuate. Se agevole è l'individuazione della condotta penalmente rilevante,
nel caso di atti vessatori di per sé illeciti, come le ingiurie, le maldicenze
(diffamazione), le molestie sessuali, la violenza privata,etc., punibili in
quanto tali (tranne l'ingiuria attualmente depenalizzata) anche se consistenti
in una sola condotta, più difficile è ottenere una condanna penale quando gli
atti vessatori sono individualmente leciti ma, considerati nella loro
sistematicità e nel loro ripetersi costante e prolungato, sono in grado di
ledere sensibilmente l'integrità psico-fisica e morale della vittima, in
maniera anche più grave di un singolo atto penalmente illecito. In questi casi
la giurisprudenza penale ha più volte ricondotto la fattispecie del mobbing
nell'alveo del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572
c.p.).
La tutela civile per il lavoratore mobbizzato
Ma il lavoratore leso può
ottenere tutela, anche innanzi al Giudice Civile, senza che per ciò sia
indispensabile provare che sia stato commesso un reato, purché si riesca a
provare la condotta lesiva del mobbizzante, il danno da questa provocato alla
vittima ed il nesso di causalità con la predetta condotta, ossia che il danno
lamentato dalla vittima sia stato determinato dalla condotta mobbizzante. Per
quanto concerne l'onere probatorio che grava sul mobbizzato che vuole agire in
giudizio davanti al Giudice Civile per ottenere il risarcimento dei danni da
lui subiti, occorre distinguere il tipo di responsabilità invocata. Infatti la
responsabilità civile per mobbing può essere di natura contrattuale o
extracontrattuale.
La giurisprudenza è ormai
consolidata nel ritenere che il datore di lavoro, nell'ipotesi di mobbing,
anche posto in essere da altri suoi dipendenti ai danni di un loro collega,
risponda per responsabilità contrattuale, e ciò per aver violato dell'art. 2087
c.c. che impone all'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale del prestatore di lavoro, e quindi egli è tenuto non solo a
rispettare l'integrità psico-fisica del suo dipendente, ma anche ad adottare
tutti gli accorgimenti e le misure atte ad evitare e/o a far cessare qualsiasi
condotta lesiva posta in essere da altri suoi dipendenti.
Il risarcimento del danno
Da quanto precedentemente
esposto emerge che affinché il lavoratore ottenga il risarcimento dei danni da
lui subiti sul luogo di lavoro, deve essere accertata la condotta ingiustamente
lesiva e pertanto il lavoratore dovrà provare le singole condotte vessatorie,
la loro intensità lesiva, l'intento persecutorio nei suoi confronti, la non
esiguità del danno subito, l'esistenza del nesso di causalità tra le condotte
lesive e il danno subito, ed infine l'entità del danno subito. Pertanto non
basta addurre condotte generiche che dimostrano mancanza di stima nei confronti
del lavoratore, scarso impiego in mansioni qualificanti , richiami e rimproveri
anche per motivi futili, se manca l'intento persecutorio, oppure se, pur
essendoci l'intento persecutorio, l'intensità lesiva della condotta è lieve, e
quindi il lavoratore non ha subito un danno obbiettivo e grave.
Se il lavoratore riesce a
dimostrare che a causa delle reiterate condotte aggressive e persecutorie nei
suoi confronti, ha subito un danno (per esempio è stato costretto a dimettersi,
oppure ha subito un'ingiusta decurtazione dello stipendio, o ancora ha subito
un danno all'integrità psicofisica per esempio una grave depressione) in questi
casi può riuscire ad ottenere un risarcimento.
Fonte: Estratto dell’articolo
dell’Avv. Gabriella Patteri sul
sito dello Studio Castaldi
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