mercoledì 20 settembre 2017

Dal mobbing verticale al quick mobbing



Il termine inglese mobbing è il present participle del verbo to mob che significa "attaccare, assalire, aggredire, accerchiare" riferito ad una folla o comunque ad una massa di persone, infatti deriva dal latino "mobile vulgus" cioè "plebe in tumulto".

Cos'è il mobbing
Questo termine è stato ormai da tempo adottato nel nostro Paese per definire l'attacco che il lavoratore subisce nell'ambiente di lavoro, da parte del datore di lavoro, o dei superiori gerarchici, oppure da parte dei suoi stessi colleghi, attuato attraverso una serie di comportamenti, che talvolta sono illeciti (ingiurie, diffamazione, percosse, lesioni, violenza privata, minacce, molestie sessuali etc.), ma molto più spesso sono, singolarmente considerati, leciti (rimproveri verbali, procedimenti disciplinari, trasferimenti, modifica delle mansioni, modifica degli orari di lavoro, diniego di ferie e permessi, etc.), che vengono posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato, in maniera persecutoria e con intento vessatorio, al solo scopo di isolare, emarginare, umiliare e finanche espellere dal contesto organizzativo il lavoratore, che subisce a causa di tali comportamenti posti in essere contro di lui, un danno alla sua integrità psicofisica ed/o alla sua dignità.

Mobbing verticale e mobbing orizzontale
L'autore del mobbing, il c.d. mobber, ossia colui che pone in essere i comportamenti aggressivi, vessatori e persecutori nei confronti del lavoratore (c.d. mobbizzato), non è quindi, necessariamente, il datore di lavoro o il superiore gerarchico, ma possono anche essere uno, o più, colleghi posti nella stessa posizione gerarchica della vittima; per distinguere le due ipotesi, ai meri fini classificatori, si parla rispettivamente di mobbing verticale o bossing e mobbing orizzontale. Esiste inoltre, anche se più raro, il c.d. mobbing ascendente, che è quello praticato generalmente da più lavoratori che si coalizzano contro il proprio datore di lavoro, o più spesso, contro il proprio superiore gerarchico, con condotte che arrecano danno alla persona e talvolta anche all'azienda.

Il quick mobbing e lo straining
Nel mobbing è indispensabile che vi siano più condotte vessatorie, continue, non sporadiche ma ripetute nel tempo, che perdurino per un periodo medio-lungo. La giurisprudenza di solito richiede una durata di almeno sei mesi, ed una ripetizione degli atti persecutori di almeno due volte al mese, salvo per il c.d. quick mobbing che consiste in attacchi particolarmente intensi e frequenti (anche quotidiani), e per il quale la durata necessaria viene ridotta a tre mesi. Il termine quick mobbing è stato coniato dallo Psicologo specialista in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni, dott. Harald Ege, considerato il principale studioso del fenomeno mobbing, al quale si deve anche la paternità del termine straining, un particolare tipo di mobbing consistente in un aggressione al lavoratore attuata solitamente dal suo superiore gerarchico o dal suo datore di lavoro, anche con una sola azione ostile, i cui effetti negativi sul lavoratore perdurano costantemente nel tempo. Quindi lo straining si differenzia dal mobbing vero e proprio per il modo in cui viene perpetrata l'azione vessatoria, in quanto non è necessaria la continuità e la frequenza delle azioni persecutorie, ma è sufficiente anche una sola azione, purché sempre accompagnata dal preciso intento di arrecare un danno al lavoratore e purché l'azione predetta determini effettivamente un pregiudizio personale o professionale al dipendente. Il classico esempio è quello del demansionamento o del trasferimento non motivato da ragioni aziendali ed organizzative, ma posto in essere unicamente per provocare un peggioramento permanente alle condizioni lavorative e/o personali del dipendente.

Lo straining è stato riconosciuto come fonte di responsabilità da una recente sentenza della Suprema Corte, la n° 3291 del 19/02/2016. Nel caso deciso da Piazza Cavour, la ricorrente, nonostante avesse qualificato il fatto come mobbing, e pur avendo allegato l'esistenza di due sole condotte (ingiurie), poste in essere da parte del superiore gerarchico nell'arco di un anno - essendo riuscita a dimostrare di aver subito a causa di tali condotte un danno biologico del 10% per disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso poi cronicizzato - ha ottenuto in tutti e tre i gradi di giudizio il riconoscimento del suo diritto ad essere risarcita per il pregiudizio subito. In questo caso i giudici hanno qualificato la condotta del superiore gerarchico come straining , facendo propria la terminologia dell'esimio studioso della materia, e riconducendo questa fattispecie, al pari del mobbing, in una violazione dell'art. 2087 c.c., che prevede l'obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie alla tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro.

La rilevanza penale del mobbing
Il mobbing non è di per sé un reato, nel senso che non esiste una norma di carattere penale che individui gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e la punisca con una sanzione penale pecuniaria o detentiva; ma questo non vuol dire che tale condotta non possa sfociare in una condanna penale per l'autore del mobbing.

La giurisprudenza penale ha spesso ricondotto i comportamenti dei c.d. mobber a fattispecie penali ben individuate. Se agevole è l'individuazione della condotta penalmente rilevante, nel caso di atti vessatori di per sé illeciti, come le ingiurie, le maldicenze (diffamazione), le molestie sessuali, la violenza privata,etc., punibili in quanto tali (tranne l'ingiuria attualmente depenalizzata) anche se consistenti in una sola condotta, più difficile è ottenere una condanna penale quando gli atti vessatori sono individualmente leciti ma, considerati nella loro sistematicità e nel loro ripetersi costante e prolungato, sono in grado di ledere sensibilmente l'integrità psico-fisica e morale della vittima, in maniera anche più grave di un singolo atto penalmente illecito. In questi casi la giurisprudenza penale ha più volte ricondotto la fattispecie del mobbing nell'alveo del reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.).

La tutela civile per il lavoratore mobbizzato
Ma il lavoratore leso può ottenere tutela, anche innanzi al Giudice Civile, senza che per ciò sia indispensabile provare che sia stato commesso un reato, purché si riesca a provare la condotta lesiva del mobbizzante, il danno da questa provocato alla vittima ed il nesso di causalità con la predetta condotta, ossia che il danno lamentato dalla vittima sia stato determinato dalla condotta mobbizzante. Per quanto concerne l'onere probatorio che grava sul mobbizzato che vuole agire in giudizio davanti al Giudice Civile per ottenere il risarcimento dei danni da lui subiti, occorre distinguere il tipo di responsabilità invocata. Infatti la responsabilità civile per mobbing può essere di natura contrattuale o extracontrattuale.

La giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che il datore di lavoro, nell'ipotesi di mobbing, anche posto in essere da altri suoi dipendenti ai danni di un loro collega, risponda per responsabilità contrattuale, e ciò per aver violato dell'art. 2087 c.c. che impone all'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, e quindi egli è tenuto non solo a rispettare l'integrità psico-fisica del suo dipendente, ma anche ad adottare tutti gli accorgimenti e le misure atte ad evitare e/o a far cessare qualsiasi condotta lesiva posta in essere da altri suoi dipendenti.

Il risarcimento del danno
Da quanto precedentemente esposto emerge che affinché il lavoratore ottenga il risarcimento dei danni da lui subiti sul luogo di lavoro, deve essere accertata la condotta ingiustamente lesiva e pertanto il lavoratore dovrà provare le singole condotte vessatorie, la loro intensità lesiva, l'intento persecutorio nei suoi confronti, la non esiguità del danno subito, l'esistenza del nesso di causalità tra le condotte lesive e il danno subito, ed infine l'entità del danno subito. Pertanto non basta addurre condotte generiche che dimostrano mancanza di stima nei confronti del lavoratore, scarso impiego in mansioni qualificanti , richiami e rimproveri anche per motivi futili, se manca l'intento persecutorio, oppure se, pur essendoci l'intento persecutorio, l'intensità lesiva della condotta è lieve, e quindi il lavoratore non ha subito un danno obbiettivo e grave.

Se il lavoratore riesce a dimostrare che a causa delle reiterate condotte aggressive e persecutorie nei suoi confronti, ha subito un danno (per esempio è stato costretto a dimettersi, oppure ha subito un'ingiusta decurtazione dello stipendio, o ancora ha subito un danno all'integrità psicofisica per esempio una grave depressione) in questi casi può riuscire ad ottenere un risarcimento.

Fonte: Estratto dell’articolo dell’Avv. Gabriella Patteri sul sito dello  Studio Castaldi

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