Uno dei principali rischi per la valutazione dei rischi
realizzata nei luoghi di lavoro è quello di nascere e svilupparsi sono come adempimento burocratico che guarda
alla conformità normativa e non all’aderenza sostanziale ai concreti rischi
lavorativi, come sottolinea il “
Manuale di autodifesa del datore di lavoro”, un documento
elaborato dal Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza in Ambienti di Lavoro
(SPISAL) che spesso deve “adottare i provvedimenti sanzionatori previsti dalla
normativa sulla sicurezza nei luoghi di lavoro nei confronti di imprenditori
che, in assoluta buona fede, pensavano di aver fatto tutto ciò che è necessario
affidandosi a persone esperte, investendo risorse economiche anche notevoli
senza ottenere i risultati attesi”.
Nel primo articolo di presentazione del manuale
analizziamo quattro importanti affermazioni dello SPISAL:
- la valutazione dei rischi e la conseguente
elaborazione del documento non sono burocrazia”;
- il documento diventa burocrazia quando lo si
interpreta come “adempimento burocratico”;
- il documento di valutazione dei rischi non
“serve” allo SPISAL (il documento di valutazione dei rischi “dovrebbe essere il
modo corrente di gestire la sicurezza”, quindi deve “servire al datore di
lavoro” e non allo SPISAL).
Un’altra affermazione decisa, che nasce dalle
esperienze di vigilanza e dalle criticità riscontrate, è che il documento di
valutazione dei rischi “non è ‘un
esercizio di stile’. Chi lo scrive non è il legislatore”.
Lo SPISAL indica infatti che “spesso chi scrive i
documenti, che dovrebbero essere l’esplicitazione della valutazione, si esprime
con elaborate previsioni
omnicomprensive e con prescrizioni generiche applicabili a svariate situazioni
(a volte sono le stesse degli articoli del DLgs 81/08)”.
Ma se il legislatore si esprime in modo generico,
“è giustificato dal fatto che espone una regola o un concetto che deve poi
essere applicato in svariate realtà; chi decide le misure di prevenzione da
utilizzare in un ambiente aziendale, ben individuato e caratterizzato per il
tipo di lavorazione svolta, non può essere generico nei contenuti”.
Dunque non ha senso utilizzare nel DVR un linguaggio normativo, generico: ad
esempio la legge può dire “che si adotteranno DPI idonei perché non elenca in
modo esaustivo tutte le situazioni ma il datore di lavoro deve confrontare i
rischi (quelli residui, dopo aver adottato le protezioni collettive) presenti
nella sua azienda con le caratteristiche delle varie tipologie di DPI e poi
deve individuare quelli idonei e adeguati per ciascuna situazione,
caratterizzandoli secondo i criteri di marcatura CE in modo che sia poi facile
acquistare quelli ‘giusti’”.
E sempre riguardo al modo di scrivere la
valutazione, si sottolinea che è dunque inutile “riportare nel documento di valutazione dei rischi quello che dice la
legge”. Riportare, anche quando non necessario, pedissequamente la
normativa non solo è inutile, ma “comporta uno spreco di carta ed è dannoso
perché riduce la fruibilità del
documento che deve essere snello, agevole e facile da usare. Purtroppo,
la proliferazione di pagine di questo tipo spesso serve soltanto a giustificare
il costo di un documento che non vale ciò che viene fatto pagare al datore di
lavoro”.
Un altro modo per snellire questi monumenti di
carta è quello di evitare di “riportare in dettaglio nel documento di
valutazione dei rischi il metodo di valutazione se questo è contenuto in una
norma o in una linea guida validata”. Differentemente il metodo “deve essere
descritto, anche in dettaglio, se non in qualche modo ‘validato’ poiché il
datore di lavoro ha l’onere di dimostrarne l’idoneità allo scopo”.
Fonte: SPISAL
Nessun commento:
Posta un commento